Torquato Tasso
AMINTA
Prologo
Il dio Amore dopo aver rivelato al pubblico la propria identità e aver tessuto le lodi della potenza della sua arte, che ammansisce anche gli dei più feroci, ci spiega i motivi della sua penosa situazione. Egli infatti è costretto a rifugiarsi nei campi per sfuggire a sua madre, Venere, che vorrebbe per lui una vita di corte. Nonostante i numerosi tentativi , mai era riuscita a trovarlo e Amore ci preannuncia l’ardua impresa che affronterà, quella di far penetrare dardi infuocati nel cuore di pietra di una pastorella, Silvia, nello stesso modo in cui fece nel molle cuore del suo innamorato Aminta.
Atto primo
Scena prima
Dafne, compagna di Silvia, cerca in tutti i modi di convincerla ad accettare l’amore di Aminta. Un tempo anche lei era dedita solo alla caccia e provava vergogna del suo aspetto sensuale, ma dopo aver provato le gioie dell’amore, si abbandonò completamente ad esse non rimpiangendo mai le giornate aride della sua vita precedente vissute senza amore. Ma Silvia è irremovibile, considera nemici tutti coloro che insidiano la sua verginità, compreso Aminta e dichiara che se mai amerà qualcuno, i fiumi torneranno alle loro fonti e i lupi fuggiranno dagli agnelli. Neanche la tenera prospettiva di avere figli che la chiamino ‘’mamma’’ la fa indugiare un attimo. Allora Dafne tenta di spiegarle che l’amore è un sentimento naturale, tipico di tutti gli animali addirittura delle piante, ma a Silvia ciò non interessa, l’unico suo pensiero è quello di rispettare il voto fatto a Diana.
Brano 1:
[DAFNE] […] Mira là quel colombo
che con lungo sussurro lusingando
bacia la sua compagna.
Odi quell’usignolo
che va di ramo in ramo
contando: “Io amo, io amo”; e, se no ‘l sai,
la biscia lascia il suo veleno e corre
cupida al suo amatore;
van le tigri in amore;
ama il leon superbo; e tu sol, fiera
più che tutte le fere,
albergo gli dinieghi nel tuo petto.
Scena seconda
Aminta narra ad un suo amico, Tirsi, le vicende amorose che, portandolo alla follia e alla disperazione, hanno suscitato in lui istinti suicidi. Racconta la felicità della sua fanciullezza trascorsa accanto a Silvia, che d’improvviso si sgretolò, quando tentò con un tranello di baciarla. Lei, per la vergogna e l’ira non gli rivolse più la parola, perciò la scena si conclude con un coro che esalta l’età dell’oro per la fertilità della natura, dove sempre persisteva lucente e rigogliosa la primavera, ma soprattutto elogia lo stile di vita spensierato e primitivo nel quale solo la natura e i piaceri dettavano le regole, prima che l’onore andasse a inaridire e a impietrire gli animi, ponendo veli sulle bellissime fattezze delle fanciulle, le quali non sono più libere di amare seguendo i propri sentimenti ma devono mostrarsi schive e ritrose agli occhi dei desiderosi amanti.
Brano 2:
[AMINTA] […] Né l’api d’alcun fiore
coglion sì dolce il mel ch’allora io colsi
da quelle fresche rose,
se ben gli ardenti baci,
che spingeva il desire ad inumidirsi,
raffrenò la temenza
e la vergogna, o felli
più lenti e meno audaci.
Ma mentre al cor scendeva
Quella dolcezza mista
d’ un secreto veleno.
Tal diletto n’avea
che, fingendo ch’ancor non mi passasse
il dolor di quel morso,
fei sì ch’ella più volte vi replicò l’incanto.
Atto secondo
Scena prima
Un satiro, anche lui innamorato di Silvia, stanco dei continui rifiuti e del fatto che lei non gradisca i suoi umili regali, decide di rapirla e di vendicarsi delle offese arrecategli.
Scena seconda
Tirsi, preoccupato che Aminta possa compiere azioni avventate, va da Dafne per chiederle consiglio. Ella, per far sì che Silvia e Aminta parlino, escogita che quest’ultimo vada presso un ruscello dove Silvia è solita fare il bagno nuda, sperando che essa, colta di sorpresa, abbassi la difensiva e Aminta riesca finalmente a conquistarla.
Scena terza
Tirsi, dopo essersi accordato con Dafne del piano, va a riferirlo ad Aminta, il quale timoroso di offendere o violare anche solo con lo sguardo la donna amata, in un primo momento si rifiuta di raggiungerla al ruscello. Ma Tirsi alla fine, dicendo che lei stessa vorrebbe ciò, ma che per pudore non lo dica, sembra che riesca a convincere Aminta. Alla fine della scena il coro si appella all’Amore, affinché esso gli insegni l’arte dell’ amare, poiché nessun Dio all’infuori di lui e nessun filosofo, è mai stato capace di comprenderne i meccanismi.
Atto terzo
Scena prima
Appare sulla scena Tirsi, che sconvolto e spaventato per il presunto suicidio di Aminta, chiede al coro se lo avesse visto e narra che, giunti alla fonte dove si trovava Silvia, legata ad un albero, l’amico mise in fuga il malvagio satiro che stava per abusare di lei, liberandola. Ma nonostante l’ avesse liberata, la ninfa spaventata, fuggì veloce come una cerva senza alcun segno di gratitudine e alcuna parola. Tirsi provò a fermarla correndole dietro, ma non riuscì a raggiungerla e quando tornò nel luogo del tragico avvenimento non trovò più Aminta.
Brano 3:
[TIRSI] […]Or quando omai
c'era il fonte vicino, ecco, sentiamo
un feminil lamento; e quasi a un tempo
Dafne veggiam, che battea palma a palma;
la qual, come ci vide, alzò la voce:
«Ah, correte,» gridò «Silvia è sforzata».
L'inamorato Aminta, che ciò intese,
si spiccò com'un pardo, ed io seguì'lo;
ecco miriamo a un'arbore legata
la giovinetta, ignuda come nacque,
ed a legarla fune era il suo crine:
il suo crine medesmo in mille nodi
a la pianta era avvolto; […] A fronte a fronte
un satiro villan noi le vedemmo,
che di legarla pur allor finia.
Ella quanto potea faceva schermo;
ma che potuto avrebbe a lungo andare?
Aminta, con un dardo che tenea
ne la man destra, al satiro avventossi
come un leone, ed io fra tanto pieno
m'avea di sassi il grembo, onde fuggissi.
[…]
E tutto 'l vidi sfavillar nel viso;
poscia accostossi pianamente a lei
tutto modesto, e disse: «O bella Silvia,
perdona a queste man, se troppo ardire
è l'appressarsi a le tue dolci membra,
perché necessità dura le sforza:
necessità di scioglier questi nodi;
né questa grazia, che fortuna vuole
conceder loro, tuo mal grado sia».
Scena seconda
Aminta, triste e deluso per il rifiuto ricevuto da parte di Silvia, medita il suicidio, ma Dafne cerca di farlo desistere da questo proposito, rassicurandolo, che il rifiuto ricevuto, era stato solo sintomo della vergogna della condizione di nudità in cui si trovava la donna e non di disprezzo nei suoi confronti. Intanto giunge Nerina, una messaggera, che riferisce funeste notizie riguardo Silvia. Infatti racconta che, dopo essere accorsa da lei, terrorizzata per ciò che le era accaduto con il satiro, la vide mentre veniva rincorsa da due lupi e che aveva trovato solo un suo velo insanguinato.
Atto quarto
Scena prima
La scena si apre con l’incontro tra Silvia e Dafne, la quale scopre che è ancora viva, infatti ,anche se rincorsa da lupi affamati, era riuscita a sfuggirvi. Dafne le racconta che, durante la sua assenza, Aminta per la grande disperazione, causata dalla notizia della sua morte, si era suicidato. Silvia, sconcertata per l’accaduto, capisce di essere innamorata di Aminta e decide di andare a cercarlo.
Scena seconda
Giunto il nunzio Ergasto, narra alla presenza del coro, di Silvia e di Dafne il suicidio di Aminta e le sue ultime parole prima di buttarsi dal dirupo. Era morto invocando il nome dell’amata e augurandosi la stessa morte di questa, ovvero essere dilaniato da lupi. Il quarto atto si conclude con il dispiacere di Silvia per aver causato la morte di Aminta. Infatti non si ritiene degna della pietà altrui per la perdita dell’uomo che ama, ma sente la necessità di ricongiungersi a questo, e perciò chiede a Ergasto di accompagnarla nel luogo della terribile disgrazia.
Atto quinto
Scena prima
Un pastore di nome Elpino svela al coro che Aminta è riuscito a salvarsi, poiché dei cespugli hanno attutito la sua caduta e grazie a Silvia, che era accorsa per soccorrerlo, è rinvenuto, dopo aver perso i sensi. Inoltre narra finalmente la tanto agognata felicità raggiunta dal pastore, che si trova tra le braccia di una Silvia, che piange di gioia. Infine il coro augura ai due amanti amori futuri meno tormentati.
Epilogo
Venere va alla ricerca del figlio Amore, che dopo averla pizzicata, era fuggito. Dopo aver perlustrato ogni parte del cielo: “la sfera di Marte, e l’altre rote e correnti ed immote”, scende sulla terra per cercarlo nel cuore delle “donne leggiadre” o “degli uomini cortesi” e, a chi lo avesse ricondotto a lei, un “premio n’attenda, di cui non può maggiore darli, la mia potenza, se ben in don li desse, tutto ‘l regno d’Amore”. Ma nessuno le risponde, quindi per rendere più facile la sua ricerca, lo inizia a descrivere come un vecchio con le sembianze di un bambino, facile all’ira ma anche alla tranquillità, dai capelli color oro e gli occhi come fiamme, sempre sorridente e pronto a far scherzi. Venere, adirata, per il fallimento della sua estenuante ricerca, decide di dirigersi in altri luoghi per cercarlo.