Torquato Tasso
GERUSALEMME LIBERATA
CANTO VII
Il cavallo ha portato Erminia in una folta selva. Dopo aver errato per tutta la notte e il giorno seguente, verso sera Erminia scende da cavallo vicino la riva del fiume Giordano e si addormenta vinta dalla stanchezza. Al suo risveglio le giunge all'orecchio il suono di una zampogna e canti pastorali. Si dirige allora da quella parte ed incontra un vecchio pastore che la accoglie paternamente. Dopo essersi raccontati le proprie vite, Erminia decide di fermarsi tra i pastori attendendo che la fortuna le offra l'occasione di tornare a Gerusalemme. Amore però le tormenta ancora l'animo, e la fanciulla pensa che forse un giorno, il suo amato vedendo il luogo in cui la sua fragile spoglia riposa, conforterà il suo spirito.
Intanto Tancredi, che l'aveva inseguita credendola Clorinda, decide di tornare al campo cristiano per riprendere il suo duello con Argante. Mentre cammina incontra un corriere e gli chiede la via per il campo cristiano; questi risponde di essere diretto proprio là inviato da Boemondo. Insieme quindi giungono ad un castello: il castello incantato di Armida. Tancredi riconosce il corriere: Rambaldo, uno dei dieci partito con Armida e che per suo amore è diventato pagano.
I due mettono mani alle spade, nel frattempo è calata la sera ma la scena è rischiarata da molte lampade, e Armida osserva non veduta dall'alto del castello. Tancredi sembra prevalere, quando all'improvviso ogni luce si spegne, grazie a una magia di Armida. Tancredi si ritrova rinchiuso dentro il castello.
XLV.
Fra l’ombre della notte e degl’incanti
Il vincitor nol segue più, nel vede:
Nè può cosa vedersi a lato, o innanti,
E muove dubbio e mal sicuro il piede.
Sul limitar d’un uscio i passi erranti
A caso mette, nè d’entrar s’avvede;
Ma sente poi che suona a lui diretro
La porta, e ’n loco il serra oscuro e tetro.
XLVI.
Come il pesce colà dove impaluda
Ne’ seni di Comacchio il nostro mare,
Fugge dall’onda impetuosa e cruda,
Cercando in placide acque ove ripare:
E vien che da se stesso ei si rinchiuda
In palustre prigion, nè può tornare;
Chè quel serraglio è con mirabil uso
Sempre all’entrar aperto, all’uscir chiuso.
XLVII.
Così Tancredi allor, qual che si fosse
Dell’estrania prigion l’ordigno e l’arte,
Entrò per se medesmo, e ritrovosse
Poi là rinchiuso, ond’uom per se non parte.
Ben con robusta man la porta scosse,
Ma fur le sue fatiche indarno sparte;
E voce intanto udì che, indarno, grida,
Uscir procuri, o prigionier d’Armida.
Nel frattempo Argante si appresta alla lotta con nuove armi, pronto a combattere. Goffredo è incerto perché di Tancredi nessuno sa nulla e gli altri eroi cristiani mancano all'appello.
Allora in uno slancio generoso decide di affrontare egli stesso Argante. Interviene però l'anziano Raimondo di Tolosa che lo dissuade e si dichiara pronto ad affrontare l'avversario benché vecchio. Le sue parole generose risvegliano il valore degli altri e tutti a gara chiedono di essere prescelti. Goffredo procede allora al sorteggio e la sorte designa appunto Raimondo. Dio da lui invocato gli manda in aiuto un angelo che lo proteggerà invisibile con armi divine. Raimondo riesce a disarmare Argante, ma, quando il saraceno sta ormai per soccombere, il demonio viene in suo aiuto. Belzebù suscita una vana immagine con le sembianze di Clorinda che incita Oradino famoso arciere a colpire Raimondo.
L'angelo però toglie forza alla freccia e attutisce il colpo. Goffredo percepisce il tradimento e chiama i cristiani alla vendetta, lo stesso fanno i pagani. Dopo l'intervento di Baldovino, i pagani sono volti in fuga. Argante, rimasto solo, è travolto dal numero dai nemici. La vittoria per l'esercito crociato potrebbe essere decisiva, ma le forze infernali intervengono ancora scatenando una terribile bufera. Alla fine, dopo vari combattimenti, la pioggia blocca ogni operazione.